martedì 16 marzo 2010

Mostri e Mostre


È quasi primavera. Le giornate si allungano, le allergie dilagano, le violette occhieggiano civettuole dalle aiuole, l'aria è più dolce. Tempo di passeggiate, di vestirsi più leggeri, di picnic vittoriani in campagna.

Lo so, roba d'altri tempi. È primavera: stagione di mostre, allestimenti e inaugurazioni. Si torna non a passeggiare, ma a correre a perdifiato inseguiti da didascalie e prespaziati. Tutto e subito, niente e adesso.

Stiamo allestendo una mostra che inaugura la settimana prossima, e al solito siamo indietrissimo. Come sempre in questi eventi tutto rotola velocemente verso la data dell'inaugurazione e, senza sapere come, le cose magicamente vanno a posto quasi da sole. Ma quanta fatica, e spesso quanto spreco.

Abbiamo spessissimo la possibilità di ospitare mostre in palazzi meravigliosi, antichissimi, strabilianti. Palazzi che già da soli raccontano e trasmettono un miliardo di cose, e in cui spesso il contrasto e la contrapposizione che le mostre posso dare rafforza il fascino del luogo. Se solo si riuscisse una volta tanto a coesistere in modo intelligente con quello che ci ha preceduti, invece di volerci a tutti i costi sovrapporre nel modo più cheap. Se si riuscisse a creare degli interventi di contrasto efficaci, che rafforzassero l'allestimento senza snaturare il luogo, senza ricorprire tutto di teloni di plastica, piastrelle, pannellature e strutture mastodontiche che poi finiscono nella spazzatura.

Da quando ho iniziato a lavorare ad allestimenti di mostre mi sono reso conto di quanto la grafica possa essere detrito, sporco. Metri e metri di adesivi, prespaziati, pellicole, colle, robe appiccicose che lasciano tracce dappertutto. Non dico che non si debba vestire un evento, e neanche dico di non voler dare informazioni attraverso la grafica: a tutto questo andrebbe applicata una misura. E soprattutto un'originalità. È tanto difficile far esistere delle opere d'arte in quanto tali e lasciare che si esprimano al pubblico per quello che sono, senza sovrastrutture, senza i mille e mille giri di parole che mille e mille curatori elaborano? È davvero necessario apporre un cartellino a tutto? Didascalie anche sul silenzio?

Sarò forse il mio atteggiamento da visitatore delle mostre a condizionarmi: non sono una persona che quando va alle mostre legge. In genere sono sempre mosso dalla piacevole ansia di andare a "vedere" qualcosa. Vedere, punto e basta: il resto può venire dopo. Si progettano invece degli apparati dove il visitatore è letteralmente circondato da caratteri: le famose "scritte". Scritte: che incontrano i tuoi occhi ovunque tu stia guardando, che devono essere leggibili anche a chilometri di distanza, interi capitoli di libri riportati su parete, ingombranti, antiestetiche.

Perché dobbiamo sempre essere costretti ad assimilare una cosa invece di goderne, senza nessuna interferenza, magari nessuna parola?

Per una volta, proviamo a "guardare le figure" invece di leggere, così, tanto per cambiare.


lunedì 8 marzo 2010

La firma di mia sorella


Da sempre l'essere umano marca il territorio e i propri possedimenti.

Dai graffiti, alla Grande Muraglia, al monogramma di Maria Antonietta, tutti si sono presi la briga di dire "questo è mio", "questo sono io".

Sicuramente da tutto questo nasce il marchio, cioè la firma. La firma è una delle cosa che ci appartiene da quando abbiamo imparato a scivere, e che si porta dentro noi stessi. Un segno che ci caratterizza, che abbiamo elaborato, magari anche cambiato nel corso degli anni, ma che ci racconta.

Si firma di tutto involontariamente, a malincuore, senza pensarci; ma si sigla, si marca, quello a cui teniamo, tutto ciò che vogliamo resti attaccato a noi.

Perché ci teniamo, perché ne andiamo fieri, perché non vogliamo perdere le nostre cose, e speriamo che una firma prima o poi le riporti a casa.

E ne hanno fatta di strada le nostre firme, dalla scuola elementare fino ad adesso. Mi ricordo che da piccolo non capivo come gli adulti potessero avere delle calligrafie così brutte e illeggibili. Pensavo: forse è per far vedere come sono bravi a scrivere veloce!

Sarà stato questo pensiero, o forse sarà stato un segno di quello che poi sarebbe diventata la mia vita di grafico, ma ho sempre curato la mia calligrafia. Sicuramente c'è dell'egocentrismo in questo, in quest'attenzione all'aspetto estetico della scrittura. Ho sempre cercato di non far imbruttire la mia firma dal passare degli anni. E spesso, inavvertitamente, mentre per esempio sono al telefono, scrivo tutto l'alfabeto usando un solo segno, senza mai staccare la penna dal foglio. Un tic che ho da tantissimi anni.

Io firmo i miei libri, anche quelli che non ho ancora letto. Solo con il nome.

Mia sorella firmava i dischi, quando esistevano i vinili. Ora ovviamente non firma i cd, sono sicuro che non sente la stessa soddisfazione a firmare il cofanetto di plastica piuttosto che la bella copertina quadrata di un 33 giri di Renato Zero.

Mi sono capitati sottomano ultimamente dei dischi di quando mia sorella andava al liceo e all'università: si sta parlando della fine degli anni '70, e del pieno degli anni '80. Ce ne sono tantissimi che in alto a destra o a sinistra hanno la sua firma: Stefy. Una firma molto carina, tondeggiante, allegra, con la y che scodinzola sotto tutta la lunghezza del nome. Il suo marchio, e soprattutto una firma che aveva uno scopo. È la firma fatta sui dischi che si portavano alle feste. Dischi che non si volevano perdere e non si volevano scambiare con quelli di qualcun'altro. Dischi suonati nei garage o negli scantinati dei compagni di corso e dei fidanzati. Dischi molto amati.

Guardando quella firma mi sembra ancora di rivedere quegli anni. Anni di spalline e capelli cotonati, occhi truccati con ombretti improbabili, colori luminosi, lucidalabbra alla fragola. Anni tondeggianti e morbidi come le nuvole, tondi come la firma di mia sorella, come il logo dei Chupa Chups o delle Big Babol. Scintillanti di glitter e stelline colorate, sognanti come gli angeli di Fiorucci.

Volati via in una corsa in Ciao, quando mia sorella mi veniva a prendere a scuola e io mi stringevo forte a lei.

Scolpiti per sempre in quella firma.

domenica 7 marzo 2010

Scrivimi una lettera


Scrivimi una lettera.

Con una penna nera o blu.

In stampatello, in corsivo, di fretta.

Di notte o di giorno.

Mandami una cartolina con la foto di un vulcano in una giornata di sole. Qualcosa che esploda senza far male. Qualcosa di semplice e spettacolare.

Voglio vedere i timbri, voglio vedere una data, vergata di tuo pugno. Un luogo, una firma.

La tua scrittura sgraziata, la tua scrittura bella, le tue lettere larghe, la tua calligrafia illeggibile, le tue maiuscole. I tuoi errori e le cancellature. Le righe storte, magari che vanno all'insù.

Fammi sentire la pressione delle penna sul foglio, la tua impronta.

Usa tante carte diverse.

Usa tanti fogli.

Usa un biglietto, il retro di una fotografia, carta velina.

Fammi aprire una busta, fammi trovare qualcosa nella cassetta della posta.

Fammi capire da dove scrivi, che tempo fa là.

Metti nella busta una ciocca di capelli, un fiore, granelli di sabbia.

Dammi sempre notizie, ritagliami un po' di tempo.

Fai qualche metro per affrancarla e imbucarla. Perdi tempo.

Non mandarmi una mail, potrebbe finire nello spam, e io lo spam lo elimino senza neanche vedere quello che c'è dentro.

Preferisco aspettare i comodi del postino. Preferisco che una persona me la consegni. Che suoni il campanello e mi dica - Posta!.

Voglio aprirla, leggerla, rileggerla, rileggerla ancora. Metterla in un cassetto e lì lasciarla.

Per poi ritrovarla fra qualche anno, sempre lì. A raccontarmi qualcosa della nostra gioventù.

Scrivimi una lettera.

Io risponderò.

martedì 2 marzo 2010

Ordine signori, ordine!


Gli uomini perdono i capelli.
La calvizie è sempre stata un trauma per i portatori di pantaloni.
Inutile escogitare stratagemmi come elmetti, cappelli militari e turbanti da gran sultano: un volta entrati nell'intimità della camera da letto i nodi vengono a pettine... e in questo caso anche no.
Saranno sicuramente gli ormoni, lo stress, la cattiva alimentazione e l'inquinamento, ma ogni signore che si trova nel mezzo del cammin dantesco - quindi intorno alle 35 primavere - spesso è costretto a dover combattere una dura battaglia. Con lo specchio.
Ci si ritrova in un batter d'occhio pelati e lisci come i puntini sulle i.
Le tendenze degli ultimi anni hanno sdoganato la calvizie in favore della rasatura: rasatura non solo del cranio. Rasatura totale.
Il deserto dei tartari.
Il cappone spennato.
Il sottoscritto, che fortunatamente non soffre di calvizie, ma anzi, si ritrova una testa di capelli così, vorrebbe con questo post lanciare un appello affinché siano salvati capelli e peli.
Viva il pelo selvaggio, la pelliccia su torace, le barbe e i baffi.
Viva la brillantina, che tiene i capelli a posto, e gli dà quei riflessi da palla da bowling: il sempiterno Cary Grant ha sempre qualcosa da dirci. Viva la scriminatura, la sottile linea bianca che separa i due emisferi cerebrali e disegna una bellissima composizione bianco-nero sulle nostre teste. Viva gli allineamenti e le geometrie, le infinite forme che si danno a baffi, barbe e mustacchi (ho imparato questa parola leggendo Flaubert). Quante prove di composizione e di equilibri davanti allo specchio! Quanto cambia un viso senza peli!
Credo che il mio amore per i baffi risalga alla notte dei tempi, quando da bambino chiedevo per regalo di Natale al mio babbo di farsi crescere i baffi. Non avendo mai ricevuto questo regalo me lo sono fatto da solo, appena ho avuto qualche pelo in ordine sparso, e superato l'orrore della mezza lunghezza, ho sfoggiato con orgoglio i miei baffoni. Che quest'anno compiono 15 anni. E ne hanno viste di tutti i colori.
Quindi, cari signori: approfittate dei vostri peli, vi daranno grandi soddisfazioni. Ma sempre con stile, e nella ricerca di un equilibrio visivo.
Perciò ordine signori, ordine! Anche il pelo può essere creativo.

domenica 28 febbraio 2010

Maledette etichette


C'è sempre un senso di sfida e di stimolo per un grafico quando deve progettare un logo o un'etichetta.

Perdersi piacevolemente negli equilibri di font, colore, stile, in mille tentativi alla ricerca della perfezione, cavandosi gli occhi davanti al monitor.

Perché questo stimolo? Personalmente penso sia il desiderio di applicare qualcosa di mio su qualcos'altro: marchiare, sigillare in ceralacca rossa questo "altro", questa entità misteriosa e sovrannaturale dell'età contemporanea chiamata Marca. Ma c'è di più forse. In grafica l'individuazione di un logo per una marca viene chiamata Identità.

Identità. Logo. Etichetta. Carattere.

Parole molto interessanti, ricche e rotonde. Soprattutto molto profonde, nelle quali si possono leggere delle analogie e delle sfumature che creano un ponte sotterraneo che dalla grafica porta alla nostra vita, al nostro modo di essere.

La mia ricerca di un'identità personale si centuplica ogni volta che cerco di produrre un marchio per qualcun'altro nel quale cerco di raccontare la sua storia, ma anche di imprimere il mio stile, la mia firma, il mio modo di essere. Si cerca di oltrepassare il confine che separa il nostro essere "noi" dal nostro voler essere anche altro. È la caratteristica di ogni progettista, e di chiunque svolga un mestiere creativo: lasciare un'impronta ben evidente di sé nelle cose che fa.

Si cerca comunque di fare in modo che tutto ciò che esca dalle nostre mani venga riconosciuto anche come nostro, oltre che essere l'immagine di un altro. Quasi un lavoro di camuffamento. I grandi maestri sono riusciti a fare questo: a veicolare il loro pensiero e gusto attraverso le immagini che hanno dato ad altri.

L'etichetta è il vestito che si crea per definire un prodotto, per dargli identità e soprattutto per renderlo attraente, desiderabile.

Noi etichettiamo tutto: dalle scarpe, alle marmellate della nonna, ai cd, alle persone, ai sentimenti. È il nostro bisogno razionale di inscrivere qualcosa di molto vasto in uno spazio piccolo, gestibile, catalogabile, consultabile. E nel quale non vogliamo correre il rischio di perderci e manteniamo il controllo della nostra posizione grazie ai confini delimitati dalle nostre etichette.

I nostri amati amici francesi coniarono il termine étiquette per definire l'insieme delle norme di buon comportamento e il fitto intreccio di regole che vigevano alla corte di Francia. Una giungla di norme e codici. E la parola étiquette ha la sua etimologia in etica... Ancora intrecci di significati, e coincidenze linguistiche a dir poco ironiche.

Se l'etichetta, il galateo quindi, stabilisce quelle che sono le "buone maniere", le norme di comportamento formale, superficiale, del vivere civile, così l'etichetta che ogni grafico progetta altro non è che il vestito buono che il prodotto indossa per farsi notare, apprezzare e amare ancor prima di essere conosciuto, consumato.

Arte della seduzione? Strategie del desiderio? Trucchi di bellezza?

Sicuramente c'è dell'altro.

Compra lui, e sceglierai me.



giovedì 25 febbraio 2010

Grigio fumo


Fumava Cary Grant.
Fumava James Dean.
Fumava Bette Davis.
Fumava Coco Chanel.
Fumo anch'io.
Fumo tantissimo. Ho sempre fumato. Nonostante i tentativi di smettere non sono mai riuscito a staccarmi da questo piacere.
Un piacere che si collega tantissimo anche al lavoro, allo stare davanti al computer, e all'essere sempre e comunque molto nervoso.
Fumo continuamente specialmente quando ho un'idea che mi prende e che devo visualizzare in poco tempo. Sono sempre stato un tipo con poca pazienza.
Fumare è considerato out? Allora se è così, fumare è decisamente intonato all'essere out couture, al rappresentare quel fuori moda, quel non so che di datato e fuori stagione, ma innatamente classico e semplice che difficilmente abbandonerà il palcoscenico della vita.
La sigaretta è bianca, cilindrica, pulita. Una forma minimale. Dritta come la I dell'Helvetica, e altrettanto netta, solida, affidabile. Sai sempre che c'è - l'Helvetica intendo - su qualsiasi computer è installato, e sicuramente non passerà di moda molto facilmente. Per le sigarette il discorso cambia, se ti accorgi di averle finite e il distibutore automatico, come sempre, è guasto...
Se non ci fosse il fumo non ci sarebbe la chiarezza. Quante volte non riusciamo a vedere chiaramente un pensiero, a dire una cosa, perché c'è sempre qualcosa che ci impedisce una chiarezza, un'immediatezza?
Il fumo ha la sua utilità. La riflessione? Il rito? La pausa?
Il fumo ha il suo colore.
Il grigio.
La mezzatinta, quel "mezzo colore" che accostato ad altri più forti ne esalta la lucentezza e la forza.
Antracite. Perla. Tortora. Fumo di Londra. Asfalto. Canna di fucile.
Una nube, un temporale, un giorno di febbraio, un inverno freddo.
Una sigaretta accesa.

martedì 23 febbraio 2010

Parlare in grassetto


Inizio a scrivere questo blog, che dovrebbe parlare di grafica, scrittura, comunicazione e quant'altro con una bella bronchite e un forte abbassamento di voce.
Ho sempre avuto il vizio di visualizzare le voci delle persone come se fossero delle font: serif, sans serif, bold, light, italic...
Direi che oggi mi trovo in gola un Bodoni Poster corpo 100, molto bello a vedersi, e forse anche a sentirsi, ma difficile da gestire mentre si impagina un discorso! Le sue grandi spanciature, il nero in abbondanza che appesantisce la pagina, le grazie squadrate e solide, il suo rotolare giù fra le righe come un colpo di tosse, me lo fa sentire particolarmente vicino oggi.
In particolar modo la lettera R maiuscola del Bodoni Poster mi fa venire in mente la tosse.
Un suono Roco, Ruvido, Raschiato. Una consonante vibrante, solida e dinamica insieme, con quella gamba inclinata che si protende come un passo, deciso sì, ma con la leggerezza innata del ricciolo finale che lo rende quasi saltellante.
Come saltare a piè pari una pozzanghera, in un giorno di pioggia come questo.